} } else { ?>
“Photographs are a way of imprisoning reality. One can’t possess reality, one can possess images. One can’t possess the present but one can possess the past.” Susan Sontag, On photography, 1977.
Il vecchio album di fotografie: un archivio intimo e misterioso che custodisce il passato di ogni famiglia. Il mio archivio è composto da migliaia di fotografie scattate e stampate in camera oscura da mio nonno. Ci sono dentro persone che non ho mai conosciuto, luoghi dove non sono mai stata, storie ed episodi che ho solo potuto immaginare. La fotografia congela un momento irripetibile e condiviso solo da chi l’ha vissuto e non ci dice nulla del futuro che in quel momento doveva ancora avverarsi.
Ogni fotografia suggerisce domande, crea curiosità in chi le guarda: le persone che hanno condiviso quel momento dove sono finite? Le relazioni umane come si sono evolute? Si può nascere nella stessa famiglia e poi ritrovarsi estranei. In questo caso le fotografie diventano l’unica testimonianza di un tempo condiviso. Attraverso le fotografie si può scoprire di assomigliare molto a qualcuno che non si è mai conosciuto, in una fotografia resta acceso il sorriso di chi è andato via per sempre.
VANISHING ACTS racconta il confronto tra i miei occhi e le fotografie della mia famiglia, attraverso la mia miopia, anch’essa eredità familiare.
Le guardo da quando sono bambina, attraverso i miei inseparabili occhiali: ogni elemento nella foto è a fuoco, la visione è nitida e precisa. Tolgo gli occhiali, non ho bisogno di nitidezza per guardare oltre la superficie, scoprire il contenuto nascosto di ogni immagine. Avvicino e allontano gli occhiali dalle fotografie: luoghi e persone spariscono nelle sfocature, solo alcune parti restano visibili. E’ come leggere nel fondo delle fotografie la futura assenza di chi era presente in quel momento, in quello scatto.
Quel posto era una fabbrica abbandonata, la Ex Snia Viscosa, importante centro indutriale romano. Ormai chiuso da decenni, ancora in piedi ma completamente fatiscente. Qualche anno fa, ho trascorso delle giornate in questo posto, condiviso delle ore con chi all’epoca viveva là dentro. Una città clandestina nascosta all’interno della città “normale”. Una comunità di rumeni e di rom, in pacifica convivenza, ognuno con delle regole da rispettare. Le giornate scorrevano come nella città “normale”, molti uomini lavoravano come manovali a giornata, partivano all’alba e tornavano la sera, le donne si prendevano cura delle case improvvisate. I bambini giocavano con quello che c’era: una mascherina di carnevale anche se carnevale non era, un bel regalo per l’immaginazione. Il venerdì il barbiere faceva il suo giro, con una sedia e gli strumenti del mestiere. Gli uomini che non lavoravano si davano da fare per far assomigliare le baracche il più possibile a delle vere case. Invece queste piccole porte che si aprivano una accanto all’altra, queste baracche rattoppate con quello che si trovava per strada, sembrano il palcoscenico di un teatro dove va in scena l’arte di sapersela cavare con quel che si ha, la sofferenza dignitosa della precarietà e al tempo stesso il desiderio di normalità. Quest’umanità persa e vagante che fine avrà fatto? Avrà finalmente trovato il suo posto nel mondo? Cosa ricorderà di quei giorni trascorsi in questo ex-luogo? Della loro presenza rimangono gesti e sguardi immersi nella grana dei fotogrammi in bianco e nero.
“Non nasce teatro laddove la vita è piena, dove si è soddisfatti. Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti. E’ lì che qualcuno ha bisogno di stare ad ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dire.” Jacques Copeau
Anche tu sei collina e sentiero di sassi e gioco nei canneti, e conosci la vigna che di notte tace. Tu non dici parole. C’è una terra che tace e non è terra tua. C’è un silenzio che dura sulle piante e sui colli. Ci son acque e campagne. Sei un chiuso silenzio che non cede, sei labbra e occhi bui. Sei la vigna. È una terra che attende e non dice parola. Sono passati giorni sotto cieli ardenti. Tu hai giocato alle nubi. È una terra cattiva ‒ la tua fronte lo sa. Anche questo è la vigna. Ritroverai le nubi e il canneto, e le voci come un’ombra di luna. Ritroverai parole oltre la vita breve e notturna dei giochi, oltre l’infanzia accesa. Sarà dolce tacere. Sei la terra e la vigna. Un acceso silenzio brucerà la campagna come i falò la sera.
Cesare Pavere, La terra e la morte, 1945